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L’abbazia di San Rabano

Un capitolo della rinascita dopo il Mille

Su una sella quasi al culmine della catena dell’Uccellina, fra Poggio Lecci e Poggio Alto, al centro di una corona di alti lecci, si incontrano oggi le spettacolari rovine dell’abbazia di San Rabano. Il monastero benedettino, con la sua chiesa in stile romanico, viene fondato intorno al 1100 in una posizione strategica lungo la strada della Regina – oggi quasi perduta – che collega la via Aurelia con Cala di Forno, all’epoca un importante scalo sul mare. Sul posto c’è già una torre altomedievale, poi rimaneggiata e oggi chiamata dell’Uccellina. 

La Toscana è in piena ripresa, e il Papa vuole difendere le risorse della zona dalle mire degli Aldobrandeschi, i grandi feudatari della Maremma, e di Siena. Il nome dell’abbazia è Monasterium Arborense, o de Arboresio, da cui deriverà il nome della successiva Tenuta dell’Alberese. Nel giro di pochi decenni, ai suoi abati viene affidato il controllo di un territorio di circa 6000 ettari comprendente boschi, saline, allevamenti, riserve di caccia, scali pescherecci sulla costa e pescose paludi dell’interno.

La vita dell’abbazia

Nel Duecento, il periodo di massimo splendore della Toscana e dell’ordine benedettino, San Rabano è una florida abbazia dove vivono venti o trenta monaci. Come tutte le abbazie del Medioevo, svolge molte delle funzioni di una città: biblioteca, studio notarile, farmacia, manifattura, albergo per forestieri e pellegrini che sbarcano o si imbarcano da Cala di Forno o Talamone. 

Fuori, in capanne o rudimentali costruzioni di cui resta solo qualche traccia, vive qualche centinaio di persone che lavorano per il monastero. Intorno infatti non c’è bosco, come oggi, ma un territorio sfruttato razionalmente. In una prima fascia ci sono orti, che richiedono lavorazioni quasi quotidiane, in una seconda più lontana seminativi di cereali, per fare il pane, quindi uliveti e frutteti, spesso su terrazzamenti, e infine il bosco, periodicamente tagliato per la legna e per l’allevamento dei maiali. Accanto al convento ci doveva essere anche un orto dei semplici, cioè di piante medicinali: le loro discendenti si rinvengono ancora nei dintorni. 

In questo periodo tutta la zona è abitata, percorsa e utilizzata come mai più lo sarà in tutta la sua storia.

Una lunga decadenza

Dopo due secoli di prosperità, anche San Rabano risente pesantemente della crisi innescata dalla peste nera a metà del Trecento. Il nuovo spopolamento costringe all’abbandono della maggior parte delle attività agricole, mentre come in tutta la Maremma si affermano l’allevamento, la caccia e la pesca transumanti. Nell’interno sono poi rinate le città, e i benedettini sono in crisi di vocazioni a causa della concorrenza dei nuovi ordini basati in città, come i francescani e i domenicani. A partire dal 1200, Siena sta invadendo i territori della Maremma, finora dominati dagli Aldobrandeschi. Già nel 1303 il papa ha affidato San Rabano ai monaci ospitalieri di San Giovanni, l’ordine militare che gestisce le “magioni” lungo le vie di pellegrinaggio. Sono probabilmente loro che trasformano San Rabano in una fortezza. Ancora oggi se ne vedono chiaramente le tracce sul retro della chiesa, dove un grosso muro di cinta è stato costruito sopra l’abside. Nel 1439, infatti, i senesi smantellano la fortezza, che da abbazia viene degradata a “contado”, cioè a semplice azienda agricola, spogliandola di pietre utili, pezzi di metallo e qualsiasi cosa possa essergli utile. I monaci di San Giovanni, che resteranno proprietari della tenuta fino all’arrivo di Napoleone, si spostano così nel Priorato dell’Alberese, lungo l’Aurelia, dove un giorno sorgerà appunto Alberese. 

Riscoperta e rinascita

L’abbazia abbandonata cade in rovina, e il bosco le si richiude intorno. Col tempo di lei si perde quasi anche la memoria. Il nome “San Rabano” le viene attribuito per errore molto più tardi, da  quello di Sancti Rabani Praeceptor, costruttore nel 1587 della chiesa di Alberese, e ritenuto fra Sette e Ottocento l’ultimo abate dell’abbazia. 

La riscoperta avverrà solo nel Novecento, con un primo ciclo di restauri nel 1972 e l’istituzione del Parco della Maremma nel 1975 che comincia a portare fin qui visitatori da tutta Italia. 

Oggi la chiesa è stata dotata di una nuova copertura, e le rovine del monastero sono visitabili liberamente. Si riconoscono ancora il cortile interno, i forni, gli ambienti di servizio e la foresteria al piano terra, e gli alloggi dei monaci al piano superiore. Ma la cosa migliore, alla fine della visita, è chiudere gli occhi e immaginare come doveva apparire tutto questo otto secoli fa. 

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