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Il Parco

I monti dell’Uccellina

Le due facce del bosco 

I 3200 ettari di bosco sui monti dell’Uccellina, tradizionalmente chiamati così anche se si tratta di colline, sono il grande tesoro sempreverde del Parco. Si tratta infatti di un’unica grande lecceta che da una certa distanza può sembrare tutta uguale, ma che a chi la percorre rivela aspetti molto diversi. 

Sui versanti esposti a oriente e a nord, gli alberi crescono meglio, e come in ogni ambiente mediterraneo, il fattore chiave è l’acqua. Qui, soprattutto alle quote più basse, l’acqua è più abbondante e l’insolazione è minore, mentre le colline proteggono gli alberi dai venti che soffiano dal mare e aumentano la perdita di acqua dalle foglie. La specie dominante è il leccio, al quale si associa spesso il corbezzolo, mentre nei valloni più umidi e protetti si associano frassini, aceri, cerri e carpini, e occasionalmente anche alberi di alloro. Nel sottobosco si possono trovare invece ciclamini, pungitopo e “strappabrache”.

I versanti esposti a occidente e a sud sono invece più caldi e aridi, sia per la maggiore insolazione sia per effetto dei venti marini, che tipicamente soffiano da sudovest. Qui i lecci sono più piccoli e in molte zone, soprattutto alle quote più basse vicino al mare, la lecceta diventa macchia con presenza di erica, fillirea e lentisco, o addirittura gariga, dominata dagli arbusti bassi del ginepro, del rosmarino e del cisto. Molto calda d’estate, ma mite, fiorita e profumata d’inverno e all’inizio della primavera.

Ma non è questa l’unica chiave di lettura di questi boschi.

L’impronta della storia

I boschi dell’Uccellina sono infatti quello che resta dei boschi che un tempo coprivano quasi l’intera costa italiana. Erano sempre boschi di leccio, ma diversi da come appaiono oggi.

Erano composti infatti di alberi molto più grandi, che nella parte bassa dei versanti rivolti verso l’entroterra raggiungevano facilmente i 25 metri di altezza, e dal momento che nessuno li tagliava 

vivevano anche per secoli, superando spesso anche i mille anni di età. Le piccole bande di cacciatori e raccoglitori si limitavano a raccogliere le ghiande e a cacciare, procurandosi il legname per scaldarsi e cucinare dagli alberi o dai rami abbattuti dal vento. 

Tremila anni fa, con l’arrivo di grandi comunità di agricoltori stanziali, tutto cambia. Da allora e fino al secolo scorso il bosco è stato regolarmente tagliato, in genere ogni dieci o quindici anni. Da ogni ceppaia di leccio rinascono nel giro di due anni diversi polloni, piccoli tronchi che si prestano bene sia al taglio sia alla produzione di carbone, più facile da trasportare e dal grande potere calorico. Ancora oggi, i resti delle piazzole dei carbonai si trovano un  po’ ovunque. Intorno agli insediamenti umani, come l’abbazia di San Rabano, il bosco veniva eliminato per fare posto alle coltivazioni e anche per evitare di essere presi di sorpresa da pirati o briganti. E il suolo lasciato scoperto dai tagli e dai dissodamenti veniva facilmente eroso dalle piogge che scendevano lungo i ripidi versanti.

La lecceta ha cominciato a riprendersi nel Settecento quando queste colline sono diventate una riserva di caccia, e soprattutto dopo l’istituzione del Parco nel 1975. Oggi i tagli sono rari e limitati, e servono da una parte per conservare il paesaggio tradizionale della macchia maremmana, e dall’altra a fornire nutrimento a daini e caprioli (che si nutrono di erbe e di germogli) e molte specie di uccelli (che si nutrono delle bacche degli arbusti che si insediano nelle zone di taglio finché i lecci sono ancora piccoli). Nelle zone più favorevoli, il bosco viene invece diradato e avviato a diventare una lecceta d’alto fusto. 

Col tempo, che per un bosco vuol dire diversi decenni, i monti dell’Uccellina ospiteranno un bosco fatto di alberi sempre più grandi, alternati a radure aperte dagli incendi appiccati dai fulmini e a piccole aree in diverse fasi di ricrescita. Un ecosistema sempre più complesso e ricco di biodiversità, dove forse si perderà del tutto ogni segno di attività umana.

Eppur ci sono

Nel folto del bosco, per non parlare di quello della macchia, avvistare gli animali è più difficile che nella pineta granducale o nelle zone aperte intorno all’Ombrone e alla sua foce. 

I monti dell’Uccellina sono però molto ben popolati. Anche se qui non sono facili da vedere, se non all’alba e dopo il tramonto, questi boschi sono una zona di rifugio per istrici, daini, caprioli, cinghiali, volpi e lupi. Se ne incontrano infatti sempre molte tracce: viottoli nella macchia, impronte, tane, fatte, insogli dei cinghiali, suolo smosso e rivoltato dai cinghiali, aculei di istrice. Più difficile è accorgersi della presenza di faine e gatti selvatici, animali particolarmente elusivi, come di quella di ricci, toporagni, moscardini e topolini che si muovono nella vegetazione più fitta e nel fogliame a terra.

Per gli uccelli, questi boschi sono spesso un’opportunità stagionale. Molti migratori si fermano per una sosta. Colombacci, storni, fringuelli, pettirossi, tordi e merli svernano qui approfittando dell’abbondanza di bacche e ghiande. In primavera ed estate arrivano usignoli, upupe, cuculi. Sono invece stanziali capinere, cince, rampichini, e le onnipresenti ghiandaie, che disperdono i semi degli alberi e accelerano la rinnovazione e la diffusione del bosco. Nella macchia mediterranea bassa nelle vicinanze del mare si incontrano magnanina, succiacapre, occhiocotto. Per accorgersi della loro presenza, è meglio imparare a riconoscerne i canti.

Un po’ più facile, se si fa attenzione, è l’avvistamento dei rapaci, come albanella reale, smeriglio, lanario e biancone.

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