Un ambiente artificiale
Un mare di chiome sempre verdi. Così appaiono dalle torri di Castel Marino o di Collelungo i seicento ettari di pineta fra le colline dell’Uccellina e il fiume Ombrone, a loro volta solo una parte del sistema di pinete che si trova su buona parte delle coste basse della Maremma.
Tutte queste pinete non sono in realtà naturali, perché sono state fatte piantare dai Lorena, granduchi di Toscana, a partire dal secondo decennio dell’Ottocento. Lo stesso pino domestico non appartiene alla flora italiana, ma è una specie importata dal Vicino Oriente in epoca romana. E forse non è italiano neppure il pino marittimo, che lo sostituisce nella fascia più vicina al mare.
Anche la pianura in cui è stata piantata è in qualche modo artificiale. È formata infatti dai cordoni di sabbia accumulati fra l’alto medioevo e la fine dell’Ottocento dalle piene dell’Ombrone, particolarmente cariche di sedimenti a causa del disboscamento delle regioni dell’interno fra le quali scorre il fiume.
L’economia del pino
La pineta nasce insomma come una “piantagione di pini” per sfruttare i terreni vicino al mare, poco adatti all’agricoltura e all’epoca ricchi di acquitrini e paludi. Il pino aiuta a bonificare il terreno perché tira su molta acqua con le radici e la disperde nell’aria, ma si credeva anche che servisse a “balsamizzare” l’aria e quindi a combattere la malaria. Prima della scoperta del plasmodio, il microrganismo responsabile, si pensava infatti che la malattia fosse dovuta alla cattiva qualità dell’aria.
La ragione principale dell’impianto è stata però la produzione di pinoli, ricchi di proteine e per questo preziosissimi in un’epoca in cui il cibo era cronicamente scarso.
Per i due secoli in cui è stata gestita come una piantagione, la pineta appariva molto diversa da oggi. Decine di operai specializzati, i “pinottolai”, mantenevano il sottobosco pulito estirpando regolarmente i cespugli che cercavano di colonizzarlo, ed eliminavano regolarmente gli alberi malati. Molti altri operai stagionali si trasferivano qui durante l’inverno per la raccolta dei coni (quelli che comunemente chiamiamo “pigne”). I pinottolai si arrampicavano sugli alberi con scarpe ramponate, e con dei lunghi bastoni facevano cadere i coni. Questi venivano raccolti e portati a Principina, dove venivano disposti su grandi aie in attesa dell’estate, quando con il calore si aprivano.
Il ritorno alla natura
Nel corso degli ultimi anni del Novecento la gestione produttiva della pineta ha avuto fine, e la natura ha cominciato a riprendere il sopravvento. Il sottobosco è stato in gran parte riconquistato dalle piante della macchia mediterranea che erano state tolte a suo tempo per fare spazio ai pini, e oggi appare cosparso di grandi cespugli di lentisco, ginepro, fillirea, mirto e alaterno, fra i quali si aprono piccole radure verdissime fra l’autunno e la primavera. Sui loro tronchi si arrampicano spesso edera, stracciabrache, vitalba e caprifoglio.
Grazie a una vegetazione più diversificata si sta strutturando una comunità animale altrettanto ricca. Anche se non è sempre facile vederne, perché prevalentemente notturni, nella pineta granducale vivono volpi, istrici, tassi, cinghiali e daini in grandi quantità, insieme a qualche lupo, come si deduce dai tanti “trottoi”, i viottolini usati dagli animali per spostarsi. Nel sottobosco pascolano le vacche maremmane, che svolgono il ruolo ecologico che nelle antiche foreste mediterranee era dell’uro, un bovino selvatico oggi estinto, mentre sui rami dei pini sono comuni gli scoiattoli.
Soprattutto nelle primissime ore del giorno, nella pineta è attiva anche una grande comunità di uccelli: ghiandaie, tortore selvatiche, colombacci, fringuelli, cuculi, gazze, usignoli. Un ruolo speciale ce l’ha il picchio verde, nelle cui tane scavate nei rami più alti dei pini e abbandonate fanno il nido assioli, ghiandaie marine, upupe, storni e cinciallegre. Mentre il falco lodolaio, dall’alto, cerca di catturare qualsiasi tipo di preda.
Il futuro della pineta
I pini della pineta granducale non sono molto alti, nonostante l’età avanzata, segno che il terreno nel quale affondano le radici è poco fertile. Si trovano inoltre a competere con le piante della macchia mediterranea per l’acqua, che con i cambiamenti climatici sta diventando più scarsa. A causa dell’attacco di un insetto parassita, la cimice americana delle conifere, da alcuni anni i pini producono ben pochi pinoli, cosa che ne impedisce la rinnovazione naturale. La pineta piantata dai granduchi di Toscana sta dunque cambiando, e in assenza di interventi da parte dell’uomo è probabilmente destinata a scomparire nel giro di alcuni decenni. La potrebbe sostituire una fitta macchia mediterranea, e poi forse un nuovo bosco di lecci e sughere nelle zone più secche, e in quelle più umide di lecci e altre specie, come i frassini.
Anche dal lato del mare, l’erosione della foce dell’Ombrone ha portato negli ultimi quindici anni alla salinizzazione della falda, che nell’angolo nordoccidentale della pineta ha portata alla rapida morte degli alberi, sostituiti da piante erbacee resistenti alla salinità. Persino i pini marittimi stanno scomparendo, come in tutta la costa, anche a causa degli attacchi di una cocciniglia.
Ma la pineta ha anche un valore storico e paesaggistico. Per questo il Piano di gestione forestale della Tenuta di Alberese prevede per i prossimi quindici anni l’impianto di nuovi pini e la pulizia del sottobosco lì dove le vecchie piante si siano del tutto seccate. Poi si vedrà. I tempi della natura, soprattutto in fatto di alberi, sono molto più lenti di quelli degli uomini.
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