Conoscere per tutelare
Se il Parco della Maremma ha potuto nascere, nel 1975, è anche grazie agli sforzi di alcuni ricercatori, soprattutto botanici e forestali, che fin dagli anni Sessanta si erano resi conto dello straordinario valore di quest’isola di natura mediterranea sopravvissuta allo sviluppo della costa iniziato dopo le bonifiche dei primi decenni del Novecento. Da allora già tre generazioni di ricercatori, provenienti da università e altri centri di ricerca di tutta Italia, si sono dedicate allo studio della complessa ecologia di questo territorio. Il loro lavoro però non serve solo a conoscere meglio gli ecosistemi del Parco e le piante e gli animali che ne sono i protagonisti, documentando le tappe della rinaturalizzazione del territorio. I risultati sono infatti essenziali per stabilire i livelli di protezione per ciascuna zona, ma anche per gestire le varie componenti dell’ecosistema che dopo tanti secoli di uso e modifiche da parte dell’uomo non sono più in equilibrio fra loro. Un esempio eclatante è la grande densità di cinghiali e di daini, accentuata dalla mancanza di predatori naturali, che può danneggiare il rinnovo della vegetazione naturale.
Per i ricercatori insomma il Parco della Maremma è una sorte di grande laboratorio all’aria aperta, una delle pochissime vere “palestre” di studio degli ambienti mediterranei in Italia, nel quale continuare a studiare e ad accompagnare il ripristino – quasi sempre spontaneo, ma in qualche caso anche guidato – degli ecosistemi. Sarà un lavoro lungo, potenzialmente destinato a non finire mai. Sia perché i tempi della natura sono lunghi, sia perché non c’è un equilibrio della natura, ma una dinamica continua.
La ripresa verde
Dopo l’istituzione del Parco, la fine dell’allevamento ovino e quindi di una fortissima pressione di pascolo, l’abbandono della maggior parte degli uliveti, e la riduzione al minimo del taglio dei boschi, hanno permesso una ripresa della vegetazione. Negli uliveti, ad esempio, dove daini e caprioli hanno preso il posto delle pecore, sono comparse decine di specie di orchidee selvatiche. Nelle zone più favorevoli, come alla base delle colline dell’Uccellina sul lato rivolto verso l’entroterra, alcuni boschi che da tempo immemorabile venivano periodicamente tagliati sono stati riavviati a fustaia.
Nel corso degli anni i botanici hanno disegnato una mappa dettagliata della vegetazione, documentando la presenza di 615 specie di piante appartenenti a 23 habitat diversi. Fra queste ne è stata scoperta una endemica, cioè che non vive da nessun’altra parte: il Limonium etruscum, una pianta dai fiori piccoli ma bellissimi che vive nelle parti più interne della duna costiera.
Fra gli studi più interessanti c’è quello sulla successione ecologica nella pineta granducale. Da quando la pineta non è più sfruttata per la raccolta dei pinoli e non è più gestita, ad esempio con la periodica pulitura del sottobosco, l’ambiente ha cominciato a essere ricolonizzato dalle piante della flora spontanea del Mediterraneo. Altri studi riguardano invece gli effetti sulla vegetazione dei prolungati periodi di siccità dovuti ai cambiamenti climatici. Lo studio forse più curioso riguarda i lecci delle colline dell’Uccellina: indagini di tipo genetico hanno accertato la loro vicinanza genetica a quelli della Sardegna, portando i ricercatori a ipotizzare che a portarne qui i semi dall’isola siano stati i colombacci, nei loro spostamenti annuali attraverso il Tirreno.
Il destino degli uccelli
Nel corso degli anni Ottanta, gli ornitologi si sono dedicati soprattutto alla sistematica descrizione di tutta l’avifauna del Parco, che è la base conoscitiva per qualsiasi intervento di conservazione.
Gli uccelli sono stati la componente animale che più si è avvantaggiata della fine della caccia. La ghiandaia marina, ad esempio, è in netta ripresa dopo essere giunta sull’orlo dell’estinzione negli anni Settanta, con non più di 7-8 coppie nidificanti.
Il maggiore successo dell’istituzione del Parco è stata però la protezione degli uccelli acquatici. Le aree intorno alla foce dell’Ombrone sono diventate una preziosissima area di svernamento, soprattutto per migliaia di oche e di gru, i grandi uccelli erbivori delle pianure che durante il giorno si spostano lungo la costa ma trovano qui un ambiente indisturbato dove poter passare la notte. Per questo alcune aree, come la palude della Trappola, sono diventate zone di riserva integrale. Dal 1984, i ricercatori effettuano ogni anno il monitoraggio e il conteggio degli uccelli acquatici, e ne hanno documentato il forte aumento.
Un importante successo è stato la reintroduzione del falco pescatore fra 2006 e 2010, con la prima coppia nidificante in Italia dopo quasi cinquant’anni nel 2011.
Il ritorno del lupo
Anche per i mammiferi, verificare la distribuzione e la consistenza numerica, l’ecologia e il comportamento delle specie più importanti ha consentito di costruire l’indispensabile base conoscitiva sulla quale si fonda la gestione di oggi.
Il cinghiale, simbolo del Parco e della stessa Maremma, è stato studiato moltissimo ed è stato oggetto di interventi di contenimento fin da subito per via dei danni che può provocare alla vegetazione naturale e alle colture, oltre che ad altre specie animali. La stessa cosa, a partire da qualche anno più tardi, è avvenuta per il daino, che nel corso degli ultimi decenni si è espanso a spese del capriolo. Ogni anno, da quasi vent’anni, viene stimata la consistenza delle popolazioni di ungulati, anche per poterne decidere e modulare gli interventi di contenimento, che sono sempre stati curati dal Parco.
Col tempo i ricercatori si sono dedicato anche allo studio dell’ecologia di tassi, istrici, daini, caprioli, ma soprattutto delle volpi, e nel 1990 è avvenuta con successo la reintroduzione del gatto selvatico, che era molto probabilmente scomparso dal territorio del Parco qualche decennio prima.
La grande novità, però, è stata negli anni Duemila il ritorno spontaneo del lupo, che ha completato il mosaico ambientale trasformando il Parco anche in un grande laboratorio per lo studio dell’equilibrio fra le varie specie di mammiferi, e fra loro e il resto dell’ambiente. Quello che si scopre qui può aiutare a capire le conseguenze del ritorno del lupo anche in altre regioni d’Europa. Si tratta però di uno studio difficile, perché i mammiferi hanno abitudini notturne e vedere i lupi è difficilissimo. Bisogna quindi contarne le tracce, raccoglierne ed analizzarne gli escrementi, esaminare con pazienza i filmati di decine di fototrappole. Sappiamo così che oggi nel Parco vivono due o tre nuclei familiari, che cinghiali e daini sono le loro prede preferite, e che ai nuovi predatori gli altri mammiferi si stanno rapidamente adattando. I daini ad esempio hanno abitudini sempre più diurne, per evitare la notte quando il lupo è più attivo, mentre le prede preferite sono diventati i cinghiali, che contano sulla difesa in gruppo per proteggersi meglio. Il risultato complessivo è che gli interventi di contenimento di cinghiali e daini sono in netta diminuzione, e l’auspicio è che presto possano essere sempre più limitati perché l’ecosistema avrà ritrovato un suo dinamico equilibrio.
COSA SAPERE